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Transessualismo e percorso di transizione: la realtà italiana

trans


Ne parliamo con Tito Flagella, avvocato, vicepresidente 
e responsabile dell’area legale dell’Associazione Libellula 

 





 

Il nostro desiderio di coinvolgere Potito Flagella, per gli amici Tito, avvocato, è nata dalla notizia pubblicata lo scorso 20 ottobre l’Ansa: unflagella transessuale di Salerno aveva cambiato nome sui documenti senza aver effettuato l’intervento di riattribuzione chirurgica del sesso richiesta dalla legge italiana. Da più parti la news è stata bollata come “bufala”, Pianeta Queer aveva affrontato l’argomento immediatamente coinvolgendo Antonia Monopoli di e Maria Gigliola Toniollo (l’articolo è pubblicato nella parte News di Pianeta Queer).
Ma a transessualismo, Disturbo dell’Identità di Genere, transizione e adeguamento crediamo sia necessario dedicare molto spazio e soprattutto evitare che vengano diffuse notizie inesatte, per questo abbiamo chiamato in causa Potito Flagella, avvocato in Foggia ed in Roma, cassazionista, vicepresidente e responsabile dell’area legale dell’Organizzazione di volontariato Libellula, considerato uno dei più qualificati a intervenire su questi argomenti.
A Tito Flagella, che negli anni 1996-1999 ha collaborato con Carlo Serra e Nicola Coco presso la cattedra di Criminologia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, abbiamo rivolto alcune domande.


D. Lo scorso 20 ottobre l’Ansa ha pubblicato la notizia che una transessuale non operata ha cambiato nome a Salerno, tale notizia è risultata essere una “bufala” come hanno evidenziato le militanti di alcune associazioni legate al transessualismo, anche lei ritiene non corretta l’informazione diffusa dall'Ansa?

R. Ho appreso la notizia dalla lettura del sito internet di un quotidiano.
Non dubito della verosimiglianza della notizia. Ciò su cui credo debba essere fatta chiarezza è la circostanza, che veniva molto enfatizzata nell’articolo, che si tratterebbe della prima persona transessuale, in Italia, che, senza aver effettuato l’intervento di riattribuzione chirurgica del sesso, può indicare anagraficamente un nome femminile, essendo stata iscritta come maschio alla nascita. Innanzitutto, dal tenore dell’articolo, mi pare di capire che si sia trattato della semplice aggiunta di un nome femminile (Martina) ad un nome maschile (Michel), senza alcuna rettificazione del genere anagrafico. Si tratterebbe, dunque, del procedimento amministrativo previsto per il cambiamento del prenome anagrafico, al quale possono accedere tutte le persone, a prescindere dall’identità di genere. E’ un procedimento al quale molte persone transessuali hanno fatto ricorso, soprattutto in passato, a prescindere da interventi chirurgici, per acquisire un prenome più adatto all’aspetto fisico, scegliendo nomi ambigui, come Celeste, o Andrea, che in molti Paesi esteri è un nome femminile.
Per questa via, dunque, non si tratta certamente del primo caso in Italia.
D’altra parte, è il caso di evidenziare che il ricorso alla diversa procedura prevista dalla Legge 164 del 1982 assicura una vera e propria rettificazione dell’atto di nascita, sostituendo completamente il nome di nascita con il nuovo nome prescelto e indicato nella sentenza conclusiva dell’iter processuale, e, soprattutto, sostituendo al sesso di nascita il sesso corrispondente al genere di elezione della persona. Questo iter, secondo diverse sentenze applicative della legge, non richiede necessariamente il passaggio chirurgico di riattribuzione del sesso. Il principio della non obbligatorietà dell’intervento non è ancora pacifico in tutti i tribunali, ma vi sono diverse pronunce in tal senso: la legge, peraltro, non lo impone espressamente.
La notizia di Salerno, dunque, è inveritiera nella parte in cui si sostiene che si tratterebbe del primo caso in Italia.


D. Tra i casi da lei seguiti vi sono sentenze che abbiamo consentito il cambiamento di genere senza il completamento del percorso, ovvero senza che la persona si sottoponesse al trattamento chirurgico richiesto dall’iter di adeguamento?

R. Ritengo che, di fronte ad un vero DIG - Disturbo dell’Identità di Genere -, correttamente diagnosticato, il “percorso” di ogni persona debba assecondare le esigenze del suo benessere psicofisico. Per molti, la presenza degli organi sessuali di nascita costituisce un elemento di disturbo all’affermazione della propria identità; altri invece raggiungono un buon livello di integrazione del proprio corpo e di soddisfazione, mantenendo integri i propri genitali, ed anzi vivono con profonda ansia l’idea di sottoporsi ad un intervento di riattribuzione chirurgica, ovvero, in altri casi, presentano specifici problemi di salute che rendono altamente rischioso l’intervento. In queste ipotesi, è capitato che i Tribunali competenti abbiano disposto la rettificazione anagrafica, senza che si fosse proceduto a castrazione o isterectomia. Ho personalmente patrocinato una persona MtF che, nel marzo scorso, innanzi il Tribunale di Roma, ha ottenuto la rettificazione anagrafica del nome e del genere, pur conservando completamente integri i propri genitali di nascita.


D. L’iter di adeguamento della persona transessuale prevede alcuni passaggi obbligatori quale la terapia psicologica, ormonale e chirurgica; alla fine del percorso, quando le operazioni sono state effettuate, l’adeguamento anagrafico del genere è automatico o può accadere che la persona rimanga in un “limbo” in cui si ritrova con i documenti non rispondenti al genere ?

R. Non mi pare corretto descrivere il passaggio chirurgico come “obbligatorio”, per le ragioni che ho esposto prima. Si tratta di un passaggio eventuale, che mira ad assicurare alla persona il maggior livello possibile di benessere in relazione al proprio corpo. La legge 164 del 1982, comunque, non prevede automatismi. Sia l’autorizzazione ad eventuali interventi chirurgici demolitivi e ricostruttivi, sia la rettificazione dell’atto di nascita dipendono da iniziative della persona interessata e vengono date con sentenze, quindi, ovviamente, all’esito di un procedimento civile, che, come tutti i giudizi in Italia, richiede tempi adeguati, come minimo di alcuni mesi. Perciò, è inevitabile che, una volta effettuato l’intervento di riattribuzione chirurgica, l’interessato si trovi per qualche tempo ad avere un aspetto ed organi genitali corrispondenti ad un genere, ma l’identità anagrafica di nascita, del genere opposto. Se poi, per ipotesi, l’interessato non desse mai impulso alla fase processuale della rettificazione anagrafica, la discrasia tra dati anatomici e dati anagrafici non potrebbe ricomporsi da sola.


D. L’iter di adeguamento è uguale per un FtM (Female to Male) e una MtF(Male to Female)?

R. Sul piano strettamente giuridico, le procedure sono le medesime.
Vi sono però consistenti differenze sul piano del tipo di interventi chirurgici che vengono effettuati per adeguare il soma alla psiche delle persone. È noto che gli interventi sulla sfera genitale per le persone FtM siano maggiormente impegnativi e talora deludenti per gli interessati. Questa complessità induce, in moltissimi casi, la giurisprudenza a disporre la rettificazione anagrafica anche in assenza di interventi sugli organi genitali dei transessuali FtM o in presenza della sola isterectomia.


D. A suo avviso cosa non funziona della legge 164/82 e quali cambiamenti apporterebbe ?

R. È una domanda impegnativa, che richiederebbe molto spazio.
Il dibattito sulle lacune della 164 è coevo alla stessa normativa e dura tuttora. Sinteticamente, ritengo che sia inutilmente gravoso per le persone interessate che si debba ricorrere ad un’autorità giudiziaria per l’autorizzazione all’intervento e per la rettificazione. I giudizi civili sono lunghi, complessi, costosi e non assicurano, in questa materia, nessuna particolare utilità né all’interessato, né alla collettività. Sarebbe molto più sensato affidare a commissioni mediche e amministrative la verifica della diagnosi di DIG ed i provvedimenti conseguenti, con procedure più snelle, economiche e strettamente tecniche.
Un altro problema attiene al cosiddetto “real life test”, (ndr. Valutazione di inserimento nella vita reale) che, secondo me, dovrebbe essere sempre assicurato con modalità analoghe alla “piccola soluzione” in vigore presso vari ordinamenti nordeuropei: in Italia non è possibile per una persona che abbia solo iniziato il proprio percorso psicologico e ormonale, ottenere un provvisorio cambio di nome che permetta di utilizzare documenti di identità più confacenti all’aspetto che si va acquistando, con intuibili problemi nella vita quotidiana, a tutti i livelli. Ci sono, poi, problemi sul piano sanitario, penitenziario, di accesso al mondo del lavoro, che non vengono praticamente disciplinati.

D. In quali Paesi la legge per l'adeguamento di genere è più rispondente alla esigenze delle persone transessuali ?

R. La “piccola soluzione” venne prevista in Germania sin dal 1980. Ma le legislazioni più attente ai problemi delle persone transessuali sono sicuramente quelle più recenti.
Il Gender Recognition Act, introdotto nel Regno Unito nel 2004, e la Legge spagnola n. 3 del 2007. In entrambi i casi, l’autorità che dispone la rettificazione non è giudiziaria, né è prescritto un intervento chirurgico di adeguamento del sesso. Viene inoltre favorito il ricorso al test di vita reale, in modo da agevolare lo sviluppo di una piena consapevolezza del genere di elezione.
M.Z.
(Dicembre 2011) 


Commenti   

 
#1 Federigo 2013-08-02 20:25
Quanto è difficile in Italia il percorso per una transessuale,un a può morire.
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