HIV e Aids: paura del “sommerso”

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hiv aidsPersone sieropositive che non sanno di esserlo e quindi possono trasmettere l’infezione a loro insaputa. Complice anche la grande ignoranza degli italiani. Dati preoccupanti emersi a ICAR, però in Italia e ne parla poco, molto poco.



 

“Sommerso”, nuovi contagi e ignoranza. Di questo e di molto altro si è parlato a ICAR-Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, che si è tenuto a Milano dal 6 all’8 giugno 2016 presso l’Università Milano-Bicocca. Il congresso, presieduto dai professori Andrea Gori, (Monza), Adriano Lazzarin, (Milano), e Franco Maggiolo, è stato organizzato sotto l’egida della SIMIT, Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali.

Ma procediamo con ordine, iniziamo con il “sommerso”. Ovvero quelle persone che sono sieropositive ma non lo sanno e quindi possono diffondere l’infezione senza esserne consapevoli.

«Secondo le ultime stime in nostro possesso nella provincia di Monza e Brianza ci sono all'incirca 4.000 persone sieropositive,logo-ICAR con un sommerso -ovvero chi non sa di essere contagioso- del 35%». Ha spiegato il Prof. Andrea Gori, Direttore Malattie Infettive al San Gerardo di Monza, Università Milano-Bicocca.

Presso la struttura ospedaliera San Gerardo, a Monza, sono seguiti circa 2.000 pazienti con Hiv. Per quanto riguarda Bergamo, sono 2.500 i pazienti seguiti all'interno degli ambulatori. Cifre che non fotografano bene la situazione reale, a causa di quel "sommerso" nazionale che preoccupa gli specialisti. In Lombardia, in totale, si calcolano circa 20mila casi.

«Quello dei nuovi contagi è un problema che diventa, giorno dopo giorno, sempre più grave. – ha evidenziato Gori - Negli ultimi 4-5 anni c'è stato un incremento di infezioni tra i giovani, soprattutto nella fascia d'età 25-30 anni. Inizia anche un fenomeno parallelo di diffusione del virus nella popolazione eterosessuale: se però i gruppi LGBTQ sono tendenzialmente informati, e si espongono al rischio nonostante la consapevolezza del rischio, i secondi no, e ignorano completamente il problema».

L’obiettivo di ICAR e di tutte le associazioni coinvolte è quello di riaccendere i riflettori sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmesse. «Un tema, questo, che dopo anni di grande attenzione da parte di istituzioni, media e opinione pubblica, sta perdendo appeal – ha affermato Adriano Lazzarin, primario della Divisione di Malattie Infettive dell’Istituto San Raffaele di Milano -. Soprattutto, si sta verificando una perdita di consapevolezza su patologie come l’Aids, che ha portato a una nuova crescita, in Europa e in Italia, della loro diffusione, tanto da farne uno dei problemi più seri di salute pubblica al mondo. Perciò, è importante ripartire con iniziative di educazione e informazione sia a livello istituzionale che nel privato».

La causa principale, intorno al 90%, dei nuovi contagi rimane sempre la stessa: la mancanza dell’uso del preservativo, tanto nei rapporti etero quanto in quelli omosex. Se nella comunità gay si riscontra una maggiore conoscenza della trasmissione della malattia, tra gli eterosessuali è ampia la fetta di inconsapevoli.


HIV e AIDS: l’ignoranza degli italiani

Lo ripetiamo da molti anni: in Italia non si fa informazione e non si parla di prevenzione. Il risultato è una profonda ignoranza.

L’ignoranza degli italiani è stata misurata da un’indagine svolta da SWG per conto di Nps Italia Onlus. La società di ricerche demoscopiche ha contattato un campione rappresentativo di mille persone stratificato secondo quattro parametri: età, genere, luogo di residenza e ampiezza del comune di residenza. La ricerca ha indagato il livello d’informazione sull’Hiv/Aids, l’opinione su come i mass media trattano questo argomento, il permanere di pregiudizi e l’idea di cosa voglia dire oggi essere una persona Hiv+.

Gli italiani conoscono poco l’Hiv, hanno difficoltà a dire con esattezza come si trasmette il virus e poco o nulla sanno sulle cure che esistono per contrastare l’infezione. Riconoscono però che quando i media trattano di casi eclatanti in cui siano preservativi-aids ribboncoinvolte persone con Hiv, l’approccio dei giornalisti evidenzia sempre il lato scandalistico o allarmistico degli episodi. Ma c’è di più. Quasi un italiano su 3, con più di 45 anni, ritiene di aver visto associati nella comunicazione HIV e “peste” o “cancro dei gay”, stereotipi che col tempo si pensava di aver superato. Invece, ad oltre trent’anni dalla sua scoperta, sono forti ancora i luoghi comuni che  impediscono di avere un piena e consapevole conoscenza della malattia.

E proprio perché ignoranti, gli italiani sono piuttosto soddisfatti del loro livello d’informazione sull’HIV/AIDS: oltre il 70% delle persone intervistate ritiene di essere molto o abbastanza informato in materia, con poche differenze tra le età. In realtà per molti aspetti la situazione è assai diversa. Solo circa il 50% delle persone ha saputo rispondere alla domanda su cosa sia l’HIV, con qualche differenza tra le fasce di età e, fatto più preoccupante, tra i giovani tra 25 e 34 anni, potenzialmente i più interessati al contagio sessuale, solo poco più della metà (57%) ha risposto correttamente alla domanda su come sia possibile che si trasmetta il virus dell’HIV, mentre le persone con più di 64 anni ne sono informate nel 70% dei casi. Evidentemente anni di mancata informazione si cominciano a sentire. 

Come evidenziato, la disinformazione può avere ripercussioni gravi: solo il 37% dei ragazzi tra i 25 e i 34 anni considera l’HIV curabile, contro il 62% delle persone con più di 64 anni. In questa situazione, di fronte ad un sospetto di contagio, è prevedibile una scarsa propensione in questi ragazzi a fare il test o a comunicare al medico i propri timori. Anche rispetto all’esistenza di terapie per la cura di AIDS e HIV il livello d’informazione è risultato direttamente proporzionale al crescere dell’età: i più giovani, le persone peraltro maggiormente a rischio, sono le meno informate e consapevoli. 

La domanda su cosa significhi avere la carica virale azzerata vede i ragazzi più giovani e i 45-55enni convinti, rispettivamente nel 28% e 25% dei casi, che voglia dire non essere infettivi. Nelle altre fasce di età questa percentuale è nettamente più bassa: 15% - 19%. Rispetto a questa domanda, più “tecnica” ma con forte valenza per la prevenzione, i “non so” si collocano tra il 26% e il 40%.


Vivere con l’HIV

Dalla ricerca emerge che l’infezione HIV viene considerata soprattutto grave e pericolosa, molto meno dolorosa. Sono soprattutto i giovani e gli anziani a vedere più l’aspetto della gravità e della contagiosità, mentre la fascia di età 35-54 sembra maggiormente consapevole del risvolto di dolore che l’HIV può comportare. I ragazzi più giovani pensano più degli altri che una persona HIV+ che decida di vivere pubblicamente la propria condizione sia incosciente, mentre a considerala coraggiosa sono soprattutto le persone tra 55 e 64 anni.

I ragazzi più giovani sono convinti che essere HIV+ possa comportare l’essere rifiutati in una relazione sentimentale e sessuale (61%), e essere denigrati o insultati (40%). Al crescere dell’età queste percentuali tendono a calare sensibilmente. La fascia 25-34 è invece quella in cui è più alta la paura che vengano diffuse notizie sul proprio stato di salute (40%). Un ultimo dato preoccupante: la paura del contatto con una persona HIV + diminuisce al crescere dell’età in una progressione quasi lineare: si passa dal 55% a vent’anni al 36% oltre i 64; una prova ulteriore della inadeguatezza della informazione in materia erogata da molti anni.

Sicuramente è molto preoccupante il livello di scarsa conoscenza che denunciano le fasce giovani di intervistati, che statisticamente rappresentano quelle più a rischio contagio. Tutto questo dimostra che a livello di prevenzione, e comunicazione, sul tema Aids/Hiv c’è ancora molto da fare.

 

La qualità dell’informazione

Infine l’indagine ha sondato l’opinione degli intervistati sulla qualità dell’informazione in materia di HIV/AIDS. I ricercatori hanno posto alcune domande su come fosse stata trattata l’informazione nei casi di Valentino T., Charlie Sheen e Claudio T. che hanno avuto ampia eco da parte dei mass media. Poche persone hanno ricordato autonomamente questi episodi ed è stato necessario ricordare loro di cosa si trattasse. A questo punto, tra chi ha ricordato, più della metà ha rilevato un approccio da parte dei mass media finalizzato a evidenziare il lato scandalistico o allarmistico degli episodi.

Una malattia come l’HIV/AIDS, che di suo comporta una carica emozionale molto elevata, deve essere trattata in modo molto tecnico, equilibrato e competente, poiché ogni scivolone comunicativo è in grado di scatenare le paure delle persone e di fissare nel tempo idee e pregiudizi immotivati; ne è una prova il fatto che oltre il 30% delle persone con più di 45 anni ritiene di aver visto associati nella comunicazione HIV e “peste” o “cancro dei gay”, quando questa associazione  da diversi anni è molto rara.

Il 32% delle persone, soprattutto quelle che per età hanno vissuto la prima fase dell’infezione legano ancora HIV con tossicodipendenza e categorie a rischio: evidentemente per un lungo periodo non si è fatto nulla, o molto poco, per spiegare che l’HIV da anni è un problema che riguarda tutti. Sono bassissime, per fortuna, le percentuali di persone che legano la parola HIV a termini come vizioso o immorale.

preservativo
Una domanda riserva una sorpresa positiva: i più giovani sono meno propensi a credere al web delle altre generazioni; considerando le criticità evidenziate da questo strumento di divulgazione rispetto all’HIV/AIDS questa prudenza appare quanto mai opportuna. Come prevedibile sono invece le persone oltre i 64 anni a mostrare una maggiore propensione a credere che i mass media possano essere fonti informative affidabili, mentre per tutte le fasce di età, il canale più affidabile è il personale sanitario.

Secondo Margherita Errico, Presidente di Nps Italia Onlus: «Bisogna prima di tutto intervenire contro lo stigma che ancora riguarda le persone con HIV additati come potenziali “pericoli sociali”, come conferma certa terminologia e certo gergo usato in alcuni articoli di cronaca. Tutto ciò rischia di inficiare quanto fatto in questi anni; rischia di mettere in forse le conquiste avute sul piano del welfare, perché una paura irrazionale ed ingiustificabile potrebbe tornare a discriminare chi è positivo al virus dell’HIV. Ecco perché di recente abbiamo presentato un esposto all’Ordine nazionale dei giornalisti per denunciare un modo sbagliato di far cronaca sulla malattia».